“La prima vittima della guerra è la verità”, affermava il drammaturgo ateniese Eschilo a riprova del fatto che già nell’antica Grecia si rifletteva sul ricorso alla menzogna nei conflitti bellici.
Nonostante siano passati molti secoli, questa affermazione è ancora attuale, la società di massa, (ossia il fenomeno di crescente omologazione della collettività, volto a favorirne i condizionamenti, a profilarne tendenze e condotte), ha in generale moltiplicato il ricorso alla falsità. Uno degli effetti della mistificazione della verità, elargita dalla narrazione propagandistica che ne altera la realtà, è quello di rendere la “contabilità di guerra” inattendibile, disonesta per meglio dire, oltre che macabra. Oggi appare perfino difficile tracciare e individuare con precisione quante siano le guerre nel mondo, circostanza questa che può dipendere da vari fattori: (i) lessicali, vi è infatti chi distingue tra guerra (tipicamente intesa quale lotta armata fra stati o coalizioni per la risoluzione di una controversia internazionale) e conflitto (contesa interna rimessa alle sorti delle armi o prossima ad esserne rimessa), talvolta accorpando, altre volte no, le 2 categorie; (ii) differenti criteri di catalogazione presi a riferimento, che si basano su parametri (ad esempio mortalità, pericolo per i civili, perimetro del conflitto, suddivisione dei gruppi armati) non sempre omogenei; (iii) una pluralità frammentata di organismi e istituzioni, che si occupano periodicamente di stilare dei report, praticamente degli indicatori mondiali della pace per rendere l’idea; (iv) il diverso riferimento temporale di attinenza e pubblicazione col quale questi indici (report) vengono poi resi noti. Stando a quanto riportano i dati del Conflit Index 2024, una delle organizzazioni che elaborano periodicamente gli indicatori bellici nel mondo, nel 2023 i conflitti sono aumentati del 12% rispetto al 2022 e di oltre il 40% rispetto al 2020. Una persona su sei vive in un’area in cui vi è un conflitto attivo. Seppur con numeri e dati che non coincidono perfettamente tra loro, anche altre organizzazioni che si occupano di stilare tali indici (ad esempio il Global peace index, l’Istituto di ricerca per la pace Prio di Oslo, l’Uppsala Data Conflict Program), evidenziano incontrovertibilmente tale aberrante crescita bellicosa. Secondo gli indicatori elaborati da Global peace index, pubblicati a giugno di quest’anno dall’Institute for Economics & Peace, nel mondo vi è attualmente il più alto numero di conflitti mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sempre il report del Global peace index evidenzia che “l’impatto economico dei conflitti a livello globale nel 2023 è stato di 19 mila miliardi di dollari, pari a circa 2.380 dollari a persona. Si tratta di un aumento di 158 miliardi di dollari. Al contrario, la spesa per la costruzione e il mantenimento della pace è stata pari a 49,6 miliardi di dollari, pari a meno dello 0,6% della spesa militare totale.” Insomma, Il mondo rassomiglia sempre più pericolosamente ad un condominio rissoso in cui le parti comuni dell’(in)stabile vengono corrose dall’azione del tempo e dall’incuria, mentre le lancette del Doomsday Clock sono solo ad una manciata di secondi dalla mezzanotte. La scena del Titanic, con l’orchestrina che continuava a suonare sul ponte mentre la nave affondava, appare quanto mai suggestiva. Il Prof Emiliano Brancaccio, docente di Politica economica presso l’Università degli Studi del Sannio, è uno strenuo assertore (insieme ad emeriti esponenti) di una teoria secondo la quale la guerra c’entra solo fino a un certo con la geopolitica, le rivendicazioni territoriali, i nazionalismi, il radicalismo religioso, le psicologie dei leader e che occorre invece seriamente, prima e più di tutto indagarne le ragioni economiche. Nel suo recente saggio “Le condizioni economiche per la pace” sostiene in sintesi il Prof Brancaccio che i conflitti ad oggi esistenti siano tutti legati al grande squilibrio capitalistico tra economie creditrici e debitrici. La tendenza alla centralizzazione dei capitali, unita alla crisi del processo di liberalizzazione, avrebbe creato secondo il Prof Brancaccio (ma non solo) 2 poli contrapposti: da una parte i Paesi a debito, in primis gli USA con i loro 18 mila miliardi di esposizione verso l’estero, dall’altra i Paesi a credito, soprattutto Cina, ma anche la Russia, che beneficiano del nuovo processo di liberalizzazione. Per reagire a questa riduzione di egemonia, gli USA tendono a tornare a politiche protezioniste (antitetiche alla liberalizzazione), privilegiando solo le relazioni con i Paesi alleati. Gli altri Paesi (i nuovi che invece beneficiano del processo di liberalizzazione), tagliati fuori dalle scelte unilaterali americane, si ribellano; le guerre nascerebbero perciò secondo il Prof Brancaccio (ma anche secondo altri illustri esponenti che abbracciano e sostengono tale argomentazione), da questo scontro di fondo, generato da un diverso flusso di accentramento di capitali e dal conseguente fiorire di nuovi imperialismi. Alla tesi, condivisibile o meno, va riconosciuta una certa ricercatezza, peraltro il libro è scritto in modo estremamente chiaro prestandosi alla lettura anche di chi non è pratico della materia. Si parlava in principio di questo articolo, di verità quale prima vittima della guerra, e allora forse conviene porsi qualche domanda ulteriore per cercare di approfondire un po’ “l’indagine” e tentare di andarla a scovare la verità. Condizioni economiche squilibrate, rivendicazioni territoriali, nazionalismi, questioni etniche, di fanatismo religioso, le personalità dei leader, sono certamente pretesti dirompenti, che a vario titolo e con diverso peso, infiammano e provocano conflitti, ma chi è che li agita, su chi fanno presa e perché? L’impressione è che si sia pericolosamente persa di vista la “casa comune”. Abbagliati dal riflesso di ciò che sembriamo, ci allontaniamo sempre più da ciò che siamo. Ragioniamo ed agiamo come individui anziché come esseri umani. Incespichiamo nell’unico sconfinato soffio che alita sull’umanità tutta, senza percepirne l’unanime palpito, interrotti, non sospesi tra il respiro e il battito. Come persone disgregate, simili a naviganti senza più una rotta e per giunta privi di bussola, alimentiamo inquietudini, ansie, senso di sopraffazione, di persecuzione, odio, paure, finiamo per essere corpi estranei invece che parte compiuta e integrante dell’umanità intera. Abiuriamo all’essere umano per conferire all’ego bonus illimitati da spendere per farci quello che gli pare, quando, dove, come e con chi vuole. Tendiamo a guardare la sagoma scura dell’ombra riflessa ignorando il sole che la genera, come interruttori senza corrente, avviamo rischiose scintille senza accendere la luce. Vi è chi sostiene che la psicologia di uno Stato può assorbire, estremizzandola, quella degli individui che lo compongono, accentuando gli aspetti più pericolosi e irresponsabili e sopprimendo quelli più sani e prudenti. Al pari dei cittadini che lo popolano, gli Sati possono quindi diventare paranoidi, soffrire di deliri di persecuzione arrivando al punto di guardarsi con una sfiducia reciproca; ogni nazione finisce così per prendere misure difensive che confermano le paure dell’altro. E così, come l’individuo ossessionato può commettere dei crimini, la nazione paranoica può iniziare una guerra che sinceramente considera necessaria per la propria autodifesa. Quello che originariamente era un sospetto ingiustificato aiuta a creare proprio quella catastrofe che si desidera evitare. In base a tale teoria, la paura quindi assurge a causa primaria della guerra (https://www.castiellodantonio.it/perch%C3%A9-scoppiano-le-guerre). Paura, paranoie, quindi psicosi. In uno scambio epistolare risalente al luglio del 1932, Albert Einstein chiedeva a Sigmund Freud: “Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?” (per chi volesse approfondire l’interessante carteggio https://www.iisf.it/discorsi/einstein/carteggio.htm). La risposta dell’insigne psicoanalista fu illuminante (specie per quei tempi, stiamo parlando di un secolo fa circa); pur considerando che in un tempo prossimo, non vi fossero speranze di poter “sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”, Freud intravedeva ciò malgrado una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra, sostenendo a tal proposito: “Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: ama il prossimo tuo come te stesso”. Il padre della psicoanalisi, andava ben oltre quelle argomentazioni che grazie a lui erano divenute scienza, superando il metodo terapeutico basato sull’interpretazione dei processi mentali inconsci. Freud quindi individuava l’amore quale strumento di principale ostacolo alla guerra, spostando così il focus, la riflessione, dalla mente (di cui era indiscusso conoscitore) al cuore, dalla mera ragione all’anima. Mezzi di comunicazione sempre più veloci ci consentono di raggiungere mete sconosciute in istantanea, eppure c’è un viaggio che non riusciamo a compiere, un tragitto assai breve ma alquanto impegnativo, la strada che porta dalla testa al cuore. “Anima In questa vita c’è bisogno di più anima, Per sopportare quello che c’è intorno l’anima, …. anima che troppe volte metti sotto i piedi L’anima Che tiro fuori quando non mi credi, l’anima” cantava Pino Daniele in un suo brano del 1995 (tratto dall’Album “Non calpestare i fiori nel deserto”). E se ancora fosse, se servisse appropriarsi di ciò che siamo, se bastasse dar voce all’anima per sentirci sospesi non intrusi tra il respiro e il battito? “Credo abbiam perso la testa, o soltanto perso di vista le cose più vere, nel mare in tempesta e forse non basta. Ti confesso di avere paura, e non mi era ancora successo, paura del mondo, di te e a volte di me stesso, no no non passa.” Così canta Raf ne “Il battito animale” brano del 1993 contenuto nell’album “Cannibali”, è “il tuo battito normale, quell’ istinto naturale che c’e in te, dentro te”, ça va sans dire che qui animale è inteso come originato dall’ anima, come bestia anche no, stiamo già bene così!