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Questione di feeling

Sono in pochi immagino a conoscere Sam Altman e Mira Murati, alcuni, di sicuro gli “addetti ai lavori”, conoscono invece OpenAI, in molti, suppongo anche i “non addetti ai lavori”, conoscono invece Chat GPT, il software basato sull’Intelligenza Artificiale, realizzato e reso disponibile da OpenAI.

Chat GPT è stato progettato per consentire alle macchine di comprendere e rispondere agli input del linguaggio naturale, generando risposte simili a quelle umane all’interno di un discorso e consentire ad esempio di scrivere articoli, email, poesie, procedure, istruzioni, creare post social, correggere errori matematici, programmare e molto altro ancora.

Pochi giorni fa, il Consiglio di Amministrazione di OpenAI, ha esautorato il CEO Sam Altman destituendolo dall’incarico e nominando al suo posto, ad interim, Mira Murati, giovane e brillante ingegnere albanese, già CTO della società.

Avendo ritenuto Altman “non sempre candido nelle comunicazioni con il board”, il CdA, si legge nel comunicato dell’azienda, “non ha più fiducia nella sua capacità di continuare a guidare OpenAI” ; Sam Altman è stato in pratica messo da parte per mancanza di fiducia nei suoi confronti.

Nell’apprendere la notizia, mi è parso davvero singolare il fatto che lo stesso elemento, ossia la fiducia, quella che gli utenti hanno conferito a Chat GPT, che è perciò divenuto famosissimo in pochissimo tempo, sia stata la causa di rottura tra OpenAI ed uno dei padri della sua celebre creatura.

Mi sono perciò chiesto se sia sempre giustificata o perlomeno “ponderata” la fiducia, al quanto ampia, che andiamo conferendo alle invenzioni tecnologiche che sempre più marcatamente condizionano i nostri comportamenti.

E’ abbastanza frequente imbattersi in dibattiti, discussioni, tavole rotonde, animate per lo più da scienziati, psicoterapeuti ed altre eminenti personalità, sugli effetti derivanti dall’utilizzo eccessivo, distorto delle nuove tecnologie.

Non è mia intenzione iscrivermi al già nutrito club, non avendone peraltro assolutamente titolo. Lavoro da qualche decennio in aziende”Hig Tech oriented”, e pur non essendo un tecnico, conosco le dinamiche del mercato che premia in termini di crescita e di fatturato, quelle aziende capaci di vendere l’ultimo ritrovato (sia esso di nuova invenzione o la release più performante di un prodotto già esistente) facendo in modo che il consumatore target sviluppi una domanda (“che figo lo voglio”) pur in assenza di un’esigenza o di un reale bisogno.

Ad esempio, quante app tra le moltissime che vengono scaricate servono effettivamente? Eppure c’è un’applicazione oramai per tutto (o quasi), dipendiamo dalle app … o forse esagero?!

Non vorrei dare un’idea sbagliata, chiarisco subito perciò che non ho assolutamente nulla contro la tecnologia, anche la più evoluta. Da boomer avanzato, diciamo pure conclamato ma per fortuna non ancora in decomposizione, mi chiedo però a cosa porti la commistione che genera confusione tra il reale ed il virtuale, il vero e il “fake”, l’artificiale e il naturale: a questo punto, cos’è che è autentico?

Un paio di miei amici giovani avvocati, non ingegneri o informatici quindi, mi hanno confessato che oramai gli atti, i pareri, li impostano utilizzando l’intelligenza artificiale, ossia Chat GPT, intervenendo poi in fase di revisione per le opportune integrazioni.

Ora io credo che se le nuove tecnologie e l’utilizzo che se ne fa, aiutano ad individuare quale sia la realtà ed a comprenderne il senso, senza per questo creare dipendenza, ben vengano! Appartengo alla generazione di chi ha imparato a fare le quattro operazioni e a mandare a memoria le tabelline prima di usare la calcolatrice, in modo da non doverne dipendere.

La facilità e la rapidità nel comunicare, ricevere ed elaborare informazioni, ha senza dubbio favorito l’accesso alla cosiddetta “società dell’informazione”, dando a tutti la possibilità di esprimere liberamente e direttamente il proprio pensiero (cosa sia ben chiaro sacrosanta oltre che costituzionalmente prevista e tutelata).

Va però detto che l’invasività, la rapidità e persuasività degli strumenti a disposizione, capaci di raggiungere in un tempo di clic grandi masse di persone, pur conferendo a chiunque lo voglia la legittima facoltà di dire ciò che pensa, dissuade molti dal pensare a ciò che si dice.

Sono felicissimo se un algoritmo mi facilita la vita, ma lo sono un po’ meno se finisce per scegliere lui al posto mio o peggio, non lo sono affatto se è lui a “pensare” per me. “Il cambiamento impone la reazione” (in senso razionale ovviamente), cantava Pierangelo Bertoli in una sua canzone, la quale proseguiva dicendo ”Credo che in certi momenti il cervello non sa più pensare e corre in rifugi da pazzi e non vuole tornare”.

Ecco, vorrei che l’intelligenza naturale non delegasse a quella artificiale, che la tecnologia ed il suo utilizzo non ponessero la ragione in “rifugi da pazzi” nei quali poi si abbandona e si smarrisce

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