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La proprietà transitiva

Il fallimento è, sotto il profilo giuridico economico, una procedura concorsuale causata da uno stato di insolvenza, che si verifica quando un’azienda non è più in grado di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte, perché i ricavi ed il valore del patrimonio non coprono più i debiti.

La procedura che ne deriva, mira a soddisfare i creditori con la liquidazione del patrimonio sociale. Eppure aziende solvibili, ossia che non si trovano in una situazione fallimentare, possono in un certo qual modo “fallire” anche loro, pur riuscendo, ridimensionandosi, a onorare gli impegni presi e a difendere il patrimonio, tecnicamente non sono soggette a fallimento ma sono proiettate all’avere fallito (hanno “fallito” anche se non sono fallite).

La differenza è emblematica, non risiede solo nella transitività (avere “fallito”) o intransitività (essere fallite) del verbo ausiliario che si adopera. Vanno incontro all’aver fallito quelle aziende che seppur non assoggettabili al dissesto economico finanziario si mostrano incapaci di rinnovare la propria offerta, continuando perciò a proporre uno spettacolo, piuttosto che prodotti o servizi, non al passo con le mutate condizioni ed esigenze del mercato, inadeguate a studiare ed anticipare la concorrenza, impreparate ad intercettare le aspettative degli spettatori o dei clienti, sconsiderate nel valutare ed affrontare il cambiamento, nel comprendere quand’è che occorreva virare.

Le aziende che hanno “fallito”, pur senza essere fallite, di solito perdono quote di mercato, subiscono una contrazione dei ricavi, un sensibile calo della qualità, della reputazione, una perdita considerevole in termini di know how, di competitività e di professionalità delle proprie risorse.

I lusinghieri risultati di un’oculata e parsimoniosa gestione, concretizzatasi in un importante utile di bilancio, pone il Napoli distante dallo spettro del fallimento economico tecnicamente inteso, che pure in passato la Società ha vissuto, ciò nonostante i risultati sportivi fin qui conseguiti e lo spettacolo proposto, manifestano che la SSC Napoli ha fallito.

Ha fallito perché è riuscita nell’ incredibile, assurda ed inconcepibile opera di sperperare in pochissimo tempo il gigantesco patrimonio tattico, tecnico, umano, maturato grazie alla meritatissima conquista dello scudetto, rivelandosi inoltre perfetta kamikaze nel mortificare scientificamente la prospettiva di crescita, l’appeal del brand e dell’intrattenimento offerto.

Ciò che a questo punto della stagione, e purtroppo anche in divenire, appare ancor più grave dell’avere “fallito”, non è soltanto la necessaria rimodulazione al ribasso delle ambizioni, l’imprescindibile declassamento delle proprie aspirazioni, con l’inevitabile ripercussione sull’impoverimento delle prestazioni sportive, ma è più di tutto la presenza di effetti distorsivi riscontrabili nel modo di fare impresa perpetuato dalla SSC Napoli, incapace di intercettare ed adottare un nuovo modello imprenditoriale ed organizzativo al passo coi tempi.

L’Azienda è un complesso di beni organizzati dall’imprenditore, non è l’imprenditore. Fare l’imprenditore e pure il manager della propria impresa, denota molto spesso una forte confusione anziché una capacità di coordinazione, specie se le decisioni afferenti l’attività di impresa sono tutte riconducibili ad un unico centro di responsabilità che pertanto, trovandosi a dar conto esclusivamente a sé stesso, non è tenuto a rispondere di eventuali errori (sempreché non decida di auto sfiduciarsi). I “creditori morali” di questo “fallimento”, ossia i tifosi, la piazza, gli “influencer” per così dire, per ora non reclamano, nemmeno ci provano ad insinuarsi al passivo fallimentare, qualcuno a stento mugugna senza sbraitare, giusto il minimo sindacale, forse ancora appagati da qualche pregresso inaspettato e consistente “ristoro”. Eppure l’esperienza che alimenta il progresso, arriva dai fallimenti, chi fallisce impara dagli errori per tramutarli poi in fattori di successo.

Un fallimento fine a se stesso è la negazione del possibile, sicuri non sia il caso, non valga la pena, di porre con garbo e con fermezza, domande legittime per vedersi restituire risposte appropriate? Non per accampare pretese, ma per sapere se in un tempo a venire al “creditore” sia permesso attendersi una qualche forma di “rimborso”: cosa ha imparato la SSC Napoli da questo fallimento così eclatante, quale insegnamento ne ha tratto? Come pensa di farvi fronte e porre rimedio? La logica del profitto o il successo sportivo: quale sarà il principio adottato in divenire e come pensa di conciliare entrambe le cose? Con quale criterio sarà costruita la squadra che verrà, anche in considerazione della partenza del suo pezzo più pregiato? Pensa di poter rimanere ancora ai vertici, rinunciando agli investimenti, comprimendo costi ed ingaggi? Gli investimenti, per quanto solo sempre fin’ora ipotizzati anche di recente (stadio, centro sportivo), sono ancora traguardabili o si sono definitivamente trasformati in strumenti di distrazione di massa? Dove verrebbero reperite le risorse destinate alla realizzazione di eventuali investimenti? La considerazione della Società nel suo condottiero massimo ne esce intatta o ridimensionata?

Risposte chiare e pertinenti potrebbero rivelarsi un per lo meno equo se non giusto “indennizzo”, o no?

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