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Leggere per mantenere un privilegio

Sperimentalismo, termini altisonanti, plastismi, mode, invasione degli inglesismi: la lingua italiana è costantemente vittima di aggressioni, mutamenti, evoluzioni o regressioni, ma resta tuttavia quell’arte composta di parole che ci permette di migliorare il rapporto con noi stessi e con gli altri.

Lettura = cultura

Gli uomini hanno cominciato a parlare forse un milione di anni prima di Cristo, ed è grazie alle parole – comunicazione e uso del linguaggio – che hanno imparato a vivere, a guardare oltre i loro orizzonti, a esprimere idee e sentimenti, a esercitare il potere o a persuadere. La parola, il suo uso, ci forma, ci cambia, aiuta nella comprensione dell’altro o genera incomprensioni, annienta o consola.


Leggere, significa soffermarsi proprio sulla dualità, ovvero sulla grandezza e pericolosità della parola, insegnandoci a usarla al meglio. Dunque leggere non può essere considerato un atto passivo ma un’attività di vitale importanza proprio in un epoca di impoverimento del linguaggio: leggere per stupirsi ancora, per guarire dalle circostanze, per aprirci agli altri, per trovare soluzioni nuove, risposte differenti, o per porsi domande.


Leggere per conoscerle, le parole, ricordando che non abbiamo altro strumento che questo: un privilegio che viene da lontano, senza eguali.


Mi è stato raccontato che alcuni popoli australiani, alla morte di un membro della tribù, sopprimevano una parola dal loro vocabolario in segno di lutto e allo scopo di rimarcare la perdita facendo sì che mai fosse dimenticata. Il linguaggio e la vita dunque, procedevano di pari passo, dimostrando il potere degli uomini sulla lingua. Una storia molto affascinante che tuttavia mi fa domandare che rimaneva al tempo e dopo tanti lutti, del loro vocabolario, con le numerose parole soppresse dal dolore… Oggi, le parole sono soppresse dall’uniformarsi che impoverisce. Dai clichè e dai luoghi comuni.

Dice bene Vittorio Andreoli: “La memoria numerica l’abbiamo già persa perché affidata ai telefonini. Ora stiamo perdendo anche quella semantica: usiamo un novero sempre minore di parole.”

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